Indice delle parti già pubblicate:
1. Prima parte – Situazione attuale
1.2. Ampliamo la prospettiva
La nonviolenza nel quadro attuale ha ancora possibilità di una quanche efficacia, o rischia di sfociare irrimediabilmente in un inutile sacrificio umano?
Una prima risposta che ci è venuta in mente a questa domanda tremenda è il ritorno allo studio della nonviolenza storica. Che non è nata in Europa, ma dagli immigrati indiani in Sud Africa, ed è poi successivamente stata importata in India, col ritorno di Gandhi.
È in India che la nonviolenza ha avuto risultati storicamente molto significativi: l’India è stato il primo paese al mondo a ottenere l’indipendenza da un impero coloniale europeo. È l’India che ha mostrato al mondo intero la possibilità della nonviolenza, e questa possibilità è stata ripresa prima di tutto dai neri statunitensi, discendenti dalle popolazioni africane deportate in America. La nonviolenza si è poi vista di nuovo in atto in Sud Africa, nella lotta contro l’apartheid, di nuovo condotta dai neri.
Ciò porta a osservare che la nonviolenza è stata creata da popoli non europei, proprio per liberarsi dal giogo coloniale dell’Europa.
Ora, abbiamo in tale scenario storico la coesistenza di due fattori apparentemente contrastanti: l’azione di popolazioni considerate “inferiori”, con meno garanzie di Diritto, e quindi di incolumità, rispetto a quelle in posizione di vantaggio; e però un quadro giuridico in cui la loro umanità e dignità aveva comunque un minimo riconoscimento.
Se la prima condizione è uno dei motivi per cui la lotta è stata condotta, la seconda condizione ha aiutato la lotta ad avere successo.
Se andiamo indietro nel tempo, possiamo constatare come non è sempre stato così: quello stato di cose chiamato “civiltà” di cui piangiamo la scomparsa è una condizione che non è mai stata davvero universale.
Popoli non europei e non bianchi (definiti non a caso “non civilizzati”) non hanno potuto contare su un riconoscimento di comune umanità, o sul rispetto del Diritto, o su una basica considerazione della vita e della dignità.
E ciò dagli albori del sistema politico-economico che oggi sembra essere in avanzata decomposizione, ovvero il sistema capitalistico.
Data al 1550 la giunta di Vallalolid, che radunò a concilio esperti teologi e giuristi per dirimere la questione: gli indios hanno un’anima, oppure no? Il che significa, in termini contemporanei: sono umani, o possiamo sterminarli senza troppe remore?
La giunta non arrivò a una conclusione condivisa, la storia ci mostra dai suoi fiumi di sangue che un verdetto de facto ci fu.
Viene quindi da domandarsi se il quadro attuale non ci riporti, più che alle lotte per l’indipendenza indiana del primo Novecento, al Cinquecento di Vallalolid!
Va rilevato che, ad esempio, il generale Dyer, responsabile della strage di Amritsar del 13 aprile 1919, quando sparò su una folla inerme di indiani (radunatisi in migliaia per una festa religiosa violando la legge marziale che gli inglesi avevano appena dichiarato) finì davanti a una corte marziale britannica, cosa inconcepibile sia per uno qualunque dei conquistadores che avevano compiuto stragi ben più efferate, sia per qualunque militare americano che avesse compiuto massacri di pellirosse.
Ebbene, sembra che in Palestina si sia tornati alla situazione della conquista delle Americhe, e cioè alla totale impunità del carnefice grazie alla privazione dell’umanità del suo avversario, una situazione diversa da quella incontrata da Gandhi, da Martin Luther King o da Nelson Mandela.
Parentesi: nemmeno nel nostro continente le garanzie di Diritto e umanità sono state sempre valide per tutti. Le lotte operaie che hanno ottenuto il progressivo allargamento del suffragio sono state contrastate dagli stati borghesi con repressioni sanguinosissime; hanno aperto la strada alle rivendicazioni delle donne che chiedevano a loro volta il voto, e che pure hanno dovuto fronteggiare abusi da parte della polizia. Ricordiamo che Gandhi ebbe modo di studiare da vicino le campagne delle suffragette, a partire dal 1906 a Londra, e le considerò importanti per la sua formazione politica.
Restando nel XX secolo, abbiamo un precedente palese e ben indagato anche relativamente alla disumanizzazione del “nemico” scelto dal potere: lo sterminio degli ebrei in Germania, e poi nei paesi conquistati dai tedeschi, è stato fatto precedere da un’opera scientifica di demonizzazione prima e disumanizzazione poi delle persone di fede ebraica.
Questo fatto lo analizza la filosofa Hanna Arendt in molte delle sue opere, lo racconta il linguista Viktor Klemperer nel suo “LTI – La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un linguista”, opera che illumina la “architettura linguistica” sottesa alla propaganda. Fu Arendt a chiedersi come era stato possibile non unicamente lo sterminio, ma l’ottenimento della sottomissione degli stessi ebrei vittime del loro annientamento (della maggior parte, almeno). Una ragione di questa sottomissione volontaria potrebbe essere trovata proprio nell’opera di graduale cambiamento del linguaggio, che ha effetti sulle vittime non meno che sui carnefici, operando una generale distorsione della realtà.
La nonviolenza, con il suo rifiuto primigenio della menzogna intesa come radice prima della violenza, ha certamente molto da darci, per restare lucidi e vigili. Ma può bastare?
Per capirlo, dobbiamo proseguire nella rapida visione del quadro storico e politico nel quale ci troviamo ora, per poi cercare possibili margini di manovra. C’è ancora qualcosa da dire.
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“1.3 – Cambiamento di status: dal diritto al privilegio”]