di Aligi Taschera
Già nel 2013 il generale Fabio Mini scriveva:
“Il fatto è che oggi stiamo vivendo, a livello globale e per la prima volta nella storia umana, il ‘tempo della guerra’: la stagione in cui la guerra, come atteggiamento mentale e in tutte le sue forme visibili ed invisibili, sembra rappresentare la sola risposta ai problemi di relazione tra gli uomini”.
E poi proseguiva:
“Senza un ritorno al primato della politica per il bene pubblico, al rispetto reciproco – anche tra avversari – e all’eccezionalità della guerra, in futuro come oggi ci saranno guerre senza limiti tra diverse culture della guerra … guerre fatte in ogni zona del pianeta e in ogni luogo d’elezione…”
Parole profetiche.
E ora? Come siamo messi? Molto male, direi.
Sulla sponda est del “nostro” mediterraneo una guerra che dura almeno da 57 anni (se la si vuol fare decorrere dall’occupazione israeliana della Cisgiordania) o da 77 (se la si vuol far decorrere dalla proclamazione unilaterale dello stato di Israele del 1948) è da due anni (o più esattamente un anno e 11 mesi) degenerata in una strage quotidiana (che la si voglia chiamare genocidio o no il fatto resta) di proporzioni mostruose.
Questa strage quotidiana mostra senza veli l’estrema degradazione morale del cosiddetto “occidente” in toto. Una degradazione morale senza precedenti. Perché la quotidiana strage genocidaria degli ebrei compiuta dalla Germania nazista non era messa in mostra: era nascosta. Non solo, ma avveniva nel corso di una guerra mondiale, che vedeva mobilitate contro la Germania nazista e i suoi alleati (Italia e Giappone) le più importanti potenze: Gran Bretagna, Stati Uniti d’America, Russia (allora denominata Unione della Repubbliche Socialiste Sovietiche) e Cina.
Ora questa strage quotidiana è ben documentata, e avviene sotto gli occhi di tutti; non solo, ma l’autore di questa strage (lo stato di Israele; e non dico Netanyahu, che senza la collaborazione di decine, probabilmente centinaia, di migliaia di persone non potrebbe ammazzare nessuno) se ne vanta, e dichiara apertamente l’obiettivo di espandere i suoi confini con quei metodi, per raggiungere la “Grande Israele”. E questo avviene non contro il resto del mondo, ma con la collaborazione attiva del cosiddetto “Occidente”.
E’ evidente a tutti, infatti, che un paese che ha un’estensione e un numero di abitanti di poco inferiori a quelli della Lombardia non potrebbe continuare a fare quello che fa senza l’appoggio attivo e il continuo rifornimento di armi da parte dell’Occidente.
Non è chiaro che cosa motivi quest’ultimo a continuare a sostenere Israele. Certo, è evidente che gli Stati Uniti d’America, che, dopo la fine della seconda guerra mondiale, e ancora di più dopo la dissoluzione dell’URSS, hanno portato avanti il sogno Hitleriano di dominare il mondo, hanno un forte interesse nel sostegno ad Israele, il cui predominio in medio oriente permette loro di controllarlo. Ma l’Europa?
Che interesse hanno i paesi europei a sostenere Israele incondizionatamente? Per quanto possano guadagnare vendendo armi, non pare che i profitti siano tali da giustificare un simile atteggiamento. Certo, sicuramente l’Europa continua a sostenere Israele in quanto servo sciocco degli U.S.A., pronto a servirli contro i propri interessi, e fino al sacrificio di sé, come ha mostrato la guerra in Ucraina. Ma l’insediamento di Trump dopo la sua elezione ha mostrato qualcosa di peggio.
In Ucraina un’altra strage, anche se prevalentemente di militari e non di civili inermi, va avanti da tre anni e sette mesi. Tralasciamo pure il fatto che in realtà le stragi e la guerra sono iniziate nel Donbass nel 2014, e che anche queste non sono che l’ultimo episodio dell’espansione a est della Nato, iniziata con le guerre della ex Iugoslavia nel 1991. Parliamo dell’ultima fase, quella in cui la Russia è entrata direttamente. L’Unione Europea e i governi dei paesi che ne fanno parte hanno partecipato entusiasticamente alle sanzioni contro la Russia e alla campagna antirussa che ha accompagnato quella guerra, danneggiando pesantemente l’economia dei loro paesi. Gli stessi governi sono arrivati ad accettare senza alcuna reazione la distruzione di un’infrastruttura fondamentale per l’economia tedesca ed europea in generale: il gasdotto North Stream.
Sembrava evidente che questo comportamento assurdo fosse dovuto alla totale subalternità delle classi dirigenti dei paesi europei alla politica e agli interessi degli Stati Uniti d’America, e al fatto che le classi dirigenti europee devono la loro posizione di potere proprio alla loro capacità di garantire il permanere di tale subalternità.
Ma l’insediamento di Donald Trump ha rivelato qualcosa di ancora peggio. Trump, infatti, ha dichiarato più volte l’intenzione di far cessare la guerra e, pur con gli atteggiamenti contradditori che lo contraddistinguono, ha intrapreso iniziative per farla cessare, prima fra tutte il famoso incontro con Putin in Alaska del 15 agosto. Ma a quel punto i dirigenti europei non si sono allineati. Hanno continuato la politica di guerra che sembrava esser dovuta alla volontà di accontentare l’amministrazione Biden. Anzi, l’hanno intensificata.
Contro la volontà dei loro popoli, i dirigenti europei si allineano agli U.S.A. quando questi ultimi adottano le politiche guerrafondaie che storicamente li contraddistinguono, ma non lo fanno, anzi, interferiscono negativamente, quando gli U.S.A. provano a cambiare rotta, E’ un atteggiamento difficile da spiegare, soprattutto alla luce del fatto che i “volonterosi” non sono affatto in grado di sostenere una guerra contro la Russia; anzi, da tale guerra sarebbero probabilmente spazzati via.
Questi signori vivono evidentemente in una bolla delirante, e non riescono ad avere una relazione con la realtà. Di fronte ad un evidente declino dell’Europa (al quale loro stessi hanno potentemente contribuito) non riescono a vedere per sé stessi e per l’Europa nessuna altra soluzione che la riaffermazione della supremazia dell’Europa e dell’intero “occidente” sull’intero mondo, indipendentemente dalla realizzabilità di tale soluzione.
Ciliegina sulla torta, questi signori hanno fatto assurgere a loro simbolo, se non a loro guida, il presidente dell’Ucraina Volodymir Zelensky che, secondo numerosissime voci, sarebbe un consumatore abituale di cocaina. Ed è noto che uno degli effetti collaterali più importanti dell’uso abituale di cocaina è lo sviluppo di un delirio paranoide.
In questa prospettiva anche il sostegno pressoché senza riserve dato ad Israele trova una spiegazione. Si tratta di un messaggio: chiunque non si adegui alla volontà di supremazia dell’occidente rischia di fare la fine di Gaza. Come è noto, il delirio paranoide si connette molto spesso ad un’aggressività sfrenata.
E i popoli europei? Subiscono, senza quasi reagire, ma non pare proprio che abbiano intenzione di sacrificarsi, o di sacrificare la loro scarsa gioventù per fare la guerra alla Russia, né che siano soddisfatti dello sterminio genocidario di Gaza. Certo, in Francia ci sono segni di tensione, e la caduta del governo Bayrou ne è ora il sintomo più importante. In luglio in Gran Bretagna il nuovo partito fatto nascere da Jeremy Corbin ha raccolto 650.000 iscrizioni in due settimane. Ma in Germania, in Italia e altrove non si vede quasi nessuna reazione. E, in ogni caso, di fronte alla sottrazione di enormi risorse economiche al cosiddetto “welfare” per spostarle verso il settore bellico e la produzione di armi, e di fronte alla volontà manifesta di preparare la guerra alla Russia, con la possibile (e anche probabile) distruzione atomica dell’Europa, la reazione popolare è in proporzione debolissima, se non inesistente. Nessuno dei popoli europei sembra essere pronto a mandare a casa i governanti europei a partire dalla truffatrice corrotta Ursula von der Leyen.
Il problema è che non si vedono da nessuna parte forze politiche capaci di diventare maggioritarie e di imporre il “ritorno al primato della politica per il bene pubblico, al rispetto reciproco – anche tra avversari”.
Con la possibile eccezione del partito di Corbyn, al di là delle alpi l’opposizione alla guerra sembra essere diventata una caratteristica distintiva di ciò che si suol chiamare destra. La cosa non stupisce, dato che il ritorno al primato della politica non si può disgiungere dalla rivendicazione della sovranità nazionale che, nelle democrazie, appartiene, o dovrebbe appartenere, al popolo.
Ma, ammesso che le destre al di fuori dell’Italia siano in grado di imporre un’effettiva sovranità nazionale, questo non basta.
Per affrontare la svolta epocale che abbiamo davanti, e cioè la fine della supremazia del cosiddetto “occidente”, l’emersione di un mondo multipolare e l’incipiente crisi del capitalismo euroamericano, non possono bastare partiti che si basano su una tradizione culturale che non ha mai criticato l’esistente, e alla quale sono estranee la critica della pretesa superiorità dell’occidente e del capitalismo, o per lo meno la critica della sua ultima fase, quella della globalizzazione neoliberista.
La critica dell’esistente, dell’atteggiamento arrogante e imperialistico dell’occidente e del capitalismo vecchio e nuovo sono sempre state le caratteristiche distintive di quel che si soleva chiamare sinistra. Ma di fronte alla potenza della globalizzazione neoliberista e al crollo dell’U.R.S.S., la sinistra si è sciolta come neve al sole, salendo sul carro del vincitore e aderendo non solo alla globalizzazione neoliberista, ma anche alle sue pulsioni guerrafondaie. Per giunta i suoi residui continuano ad occupare lo spazio politico, creando l’illusione che una sinistra esista ancora.
In Italia il sentimento diffuso di opposizione resta velleitario; il dissenso è diviso in mille rivoli che non riescono né ad elaborare una prospettiva unitaria, né a dar vita ad una grande organizzazione
all’altezza delle sfide. Manca la capacità di produrre un progetto politico e un’organizzazione politica alternativa in grado di mandare a casa, per lo meno ridurre ad estrema minoranza, la classe politica che ci ha governato negli ultimi 30 anni.
Perché? A prima vista si possono individuare almeno quattro motivi.
Il primo è la diffusione capillare dell’ideologia neoliberista, secondo la quale “la società non esiste, esistono solo gli individui” (come sostenuto da Margaret Thatcher) e che dunque imputa all’individuo il completo merito del successo o la completa colpa del fallimento; diffusione che non è stata minimamente contrastata dalla sinistra esistente, che, invece di resistere, ha pensato opportuno salire sul carro del vincitore.
Il secondo, che consegue dal primo, è la perdita della dimensione collettiva e storica, che impedisce la nascita di una soggettività politica. La cosiddetta società civile è sempre più formata da monadi senza relazioni sistematiche con gli altri, senza memoria storica (impossibile per chi non viva in una dimensione collettiva, dato che la storia è appunto il risultato dell’azione collettiva). Tutto ciò provoca l’assenza della capacità di immaginare un’alternativa all’esistente e dunque l’assenza di una spinta collettiva verso un’alternativa.
Il terzo, che consegue dai primi due, è l’assenza di un pensiero critico di ampia portata, assenza che impedisce la capacità di formulare progetti alternativi, o anche utopie, in grado di fare da fondamento all’azione collettiva e di guidarla.
Il quarto è la sostanziale assenza di intellettuali capaci di pensiero critico, e di formulazioni teoriche in grado di guidare un’azione collettiva.
In una situazione così desolante è molto difficile individuare linee d’azione possibili.
Se ipotizzassimo che ci troviamo in una situazione di crisi della democrazia, con istituzioni democratiche malfunzionanti e profondamente malate, ma nel complesso ancora vive e vitali, potremmo ipotizzare elementi di una terapia.
Si tratta di connettere i residui intellettuali che abbiano la volontà, prima ancora che la capacità, di formulare una critica dell’esistente ed un progetto alternativo e di riformulare una teoria critica ed un progetto di alternativa, riconnettendolo alla tradizione del pensiero critico che non va inventato ex novo, stante che ha pressoché 300 anni di storia.
Bisogna ricreare connessioni e legami tra tutti coloro che non si vogliono rassegnare ad un inevitabile futuro di guerra, distruzione e decadenza fondati sulla nuova cultura critica e su un progetto di alternativa. Infine creare una grande organizzazione politica in grado di sostituire i potenti che occupano le istituzioni “democratiche” e cacciarli.
Ma si tratta di un’idea realistica? Un’impresa di questo tipo abbisogna di almeno 15 anni per essere compiuta. Ma l’Italia e l’Europa non hanno davanti tutto questo tempo.
Come ripete Diego Fusaro, l’Europa è un treno in corsa verso l’abisso. O, se non un treno, una massa enorme in corsa, se non verso l’abisso, verso una parete di roccia che finirà per frantumarla. Per deviarne la traiettoria sarebbe necessario applicarle da subito (e non tra 15 anni) una forza sufficiente ad ottenere questo effetto.
Questa forza, per ora, non c’è, né c’è il tempo per costruirla.
E’ lecito sperare che, man mano che l’impatto si avvicina, si diffonda con una velocità non prevedibile una reazione, una volontà di sopravvivenza che faccia sì che il processo sopra descritto avvenga non in diversi anni, ma in pochi mesi. In altri temini è lecito sperare che si inneschi velocemente un processo rivoluzionario che cambi drasticamente la direzione presa dalle istituzioni politiche dell’Europa, e più in generale del cosiddetto Occidente. In questo caso gruppi di resistenti attrezzati possono avere un ruolo.
Ma è altresì probabile che ci troviamo nella fase di crollo di una civiltà che ha dominato il pianeta per circa 500 anni, e che nulla si possa fare per evitarlo.
L’unica reazione possibile, in questo caso, sarebbe quella cenobitica-benedettina: creare isole che cerchino di conservare e tramandare il meglio che la civiltà in disfacimento ha prodotto, in attesa di tempi migliori.
In ognuno di questi casi, che può fare un piccolo gruppo, che sia di sei, di dieci, o anche di venti persone? Può fare qualcosa di più che tenere viva la testimonianza dell’esigenza di un cambiamento, della volontà di far finire il “tempo della guerra” e di andare verso un tempo della pace, che non si può realizzare senza un tempo della giustizia sociale e dell’equilibrio interno al genere umano e tra il genere umano e la natura?
Nota della redazione:
L’articolo si conclude qui, con un interrogativo aperto. Aperto a tutti, ai movimenti “del dissenso”, ai gruppi che si chiedono che fare, a te che leggi.
Se hai delle risposte, delle idee, delle critiche, anche solo la voglia di interloquire e raccontarci cosa pensi o cosa stai facendo, scrivici, saremo felici di conoscerti e avere tue: progettononviolentomilano@proton.me
Grazie.
