Approfondimento – di Aligi Taschera
Dopo essersi dilaniata in lotte intestine ed altre follie durante la prima metà del XX secolo, l’Europa, che pure, nella seconda metà dello stesso secolo, sembrava dare segni di ripresa e di risveglio, appare con tutta evidenza essere diventata completamente demente in questa prima metà del XXI secolo.
Dopo avere reintrodotto la guerra nel suo stesso territorio (già negli anni ’90 del XX secolo), e aver più o meno completamente, a seconda delle zone, smantellato i pilastri dello stato sociale che le avevano permesso di riprendersi dopo la seconda guerra mondiale, ha pensato bene di costringere, con un allarmismo parossistico, la sua popolazione ad iniettarsi un farmaco sperimentale poco testato e dannoso.
Nel contempo ha pensato bene anche di trasferire ai produttori di tale farmaco un’ingente quota delle imposte pagate dagli europei, attraverso contratti semisegreti, esito di trattative private della presidente della commissione dell’Unione Europea condotte attraverso il suo telefonino privato, e delle quali ha fatto perdere le tracce. Non contenta, l’Europa (o per essere più precisi, la sua principale istituzione comune, l’Unione Europea) ha pensato bene di riconfermare questa truffatrice criminale alla guida dell’Unione Europea.
Nel frattempo, ha deciso anche di obbedire senza alcuna resistenza né critica agli Stati Uniti d’America, emettendo sanzioni contro la Russia, che danneggiano l’Europa molto più del grande paese eurasiatico, e di partecipare ad una guerra contro la stessa Russia danneggiando la propria economia.
Sembra proprio uno di quei vecchi dementi che si affidano entusiasticamente ai loro truffatori. Ma la cosa non finisce qui. Quando una delle sue più importanti infrastrutture energetiche, il gasdotto North Stream, è stato distrutto, è stata così demente da far finta di credere (o, peggio, credere veramente) che il sabotaggio fosse stato compiuto dai russi, permettendo così, senza proferir parola, che la sua più importante economia (quella tedesca) entrasse in recessione. E nemmeno ora che le responsabilità ucraine (non scindibili da quelle dei loro sponsor americani) vengono a galla, l’Europa dà segno di volersi riprendere dalla sua demenza, chiedendo conto all’Ucraina e ai suoi sponsor americani del loro operato.
In questa fosca atmosfera, sovrastata dall’incubo di una possibile imminente guerra nucleare, l’Europa non trova di meglio, per definire il suo ruolo nel mondo, di farsi promotrice del transgenderismo, usando, alla bisogna, anche le Olimpiadi che si svolgono in una delle più famose ed importanti città del suo territorio.
Come si è arrivati a tanto? Rispondere a questo interrogativo con un’analisi storica comporterebbe una ricerca colossale e la stesura di un grosso volume. L’impresa supera le mie forze e le mie capacità. Perciò mi ripropongo di tratteggiare lo schizzo di una ricerca molto più limitata: come è passata, l’Europa, da guida intellettuale del mondo alla demenza sopra delineata?
Carlo M. Cipolla ci ha insegnato che la supremazia d’Europa, che ha caratterizzato la modernità, si è basata prima di tutto sulle cannoniere. Però è pressoché indubitabile che tale supremazia ha potuto mantenersi grazie ad una supremazia intellettuale senza rivali, con le sue ricadute sulla tecnologia e la capacità di organizzazione politica. È di questo passaggio, dalla supremazia intellettuale, che ha caratterizzato e addirittura inventato la modernità, alla imbecillità presente, che vogliamo delineare uno schizzo.
Dopo la rivalutazione delle capacità umane, della quale il discorso “De dignitate hominis” di Pico della Mirandola costituisce il più rilevante manifesto, e tutto il ribollire di nuove idee che caratterizza il Rinascimento, la supremazia intellettuale dell’Europa si manifesta chiaramente con l’invenzione della scienza moderna e del suo metodo, che sono anche caratteristica essenziale della modernità; alla base della scienza moderna, come alla base della modernità, sta il superamento del principio di autorità.
La nascita della nuova scienza e del suo metodo, come il loro nesso con il superamento del principio di autorità, sono ben rappresentati dalla figura di Galileo Galilei, che, oltre a fornirne i primi contenuti e a fornire dati osservativi importantissimi a sostegno della nuova visione copernicana dell’universo, ne delinea il metodo e le caratteristiche fondamentali, contestando in tal modo il principio di autorità e finendo inevitabilmente per scontrarsi con l’autorità della Chiesa.
Per Galileo, il filosofo (fino ai tempi di Newton scienza e filosofia non sono separate) non ha bisogno di affidarsi a guide o autorità riconosciute, ma deve servirsi solo degli “occhi della fronte e della mente”. Vale a dire che colui che cerca di conoscere e comprendere la natura deve servirsi solo delle “sensate esperienze” (cioè dell’esperienza osservativa) e dei ragionamenti dimostrativi. Nessuna autorità e nessuna guida (nemmeno l’autorità delle sacre scritture o la guida della Chiesa) può aver più valore dell’esperienza e del ragionamento.
Esperienza e ragionamento sono i mezzi coi quali la scienza cerca la verità ed elabora conclusioni necessarie, e le verità scoperte dalla scienza non possono essere abolite da alcun potere, ne è facoltà dello scienziato credere a verità diverse da quelle individuate attraverso l’esperienza e il ragionamento.
Nella ricerca della verità “assai possono aiutare le obiezioni di uomini intelligenti”, e di conseguenza “la filosofia medesima non può che trovar benefizio dalle…dispute”, ma si tratta di dispute tra pari, non della sottomissione all’autorità.
L’idea stessa di filosofia e di scienza elaborata dal Galilei non poteva che scontrarsi con l’atteggiamento della Chiesa e di gran parte della cultura tradizionale, che si basava sul principio di autorità.
Come è noto lo scontro avvenne, e, come è sempre noto, Galilei ebbe apparentemente la peggio: dovette abiurare per non essere condannato al rogo (come era avvenuto 33 anni prima a Giordano Bruno) ed avere salva la vita: ma fu comunque condannato agli arresti domiciliari a vita, da scontare nella sua villa di Arcetri.
Di fatto, fu proprio la concezione galileiana a vincere, diventando il nucleo centrale della modernità europea, e della supremazia della cultura europea, mentre la Chiesa pagò per secoli con il discredito la sua arroganza e la sua incomprensione della validità della scienza e del suo metodo.
In realtà, Galilei aveva offerto alla chiesa una onorevole via d’uscita dal vicolo cieco in cui si stava cacciando, proponendo un modo per conciliare l’autorità dei testi sacri con la nuova scienza, via d’uscita ben delineata in una famosa lettera scritta alla Serenissima Madama la Gran Duchessa Madre Cristina di Lorena, dove, tra l’altro, scrive, a proposito delle sacre scritture: “….l’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo.”
In altre parole: la scienza descrive e spiega come è fatto il mondo (“come vadia il cielo”), mentre le scritture si occupano di dare un insegnamento morale (“come si vadia al cielo“). Ma la chiesa non accettò questa via d’uscita.
Forse per miopia e stupidità. Ma forse per buoni motivi, per lo meno dal suo punto di vista. La diffusione della razionalità scientifica galileiana, che sostituiva al principio di autorità l’osservazione e il dialogo razionale tra pari, avrebbe potuto travalicare i limiti assegnatile da Galileo, e pretendere di non limitarsi a occuparsi del mondo dei fatti (a descrivere come è fatto il mondo, o “come vadia il cielo“, per usare l’espressione di Galilei ), ma anche al mondo dei fini, cioè ai principi politici e morali (“come si vadia in cielo“), e in questo caso l’autorità della Chiesa e della religione sarebbe stata minata alla radice, e sarebbe andata incontro ad una crisi profonda.
Ciò comunque avvenne, che la chiesa l’avesse previsto o no. Fu l’Illuminismo, per molti versi anticipato da John Locke, a riprendere il modello di razionalità della nuova scienza, tentando di estenderlo al mondo storico sociale e a quello dei fini e dei valori. Sarebbe troppo lungo illustrare il ruolo dell’Illuminismo nella formazione della modernità e dell’identità europea. Limitiamoci perciò ad alcuni punti principali.
L’illuminismo applicò la mentalità critico-razionale a tutta la cultura umana, e anche al mondo storico-politico. Ciò portò alla diffusione generalizzata di un atteggiamento critico verso la religione rivelata, e ad un drastico ridimensionamento della sua importanza.
Contemporaneamente, la critica razionale della tradizione e della prassi giuridica portò ad una mitigazione delle pene, che ebbe la sua prima manifestazione evidente con l’abolizione della tortura e della pena di morte nel Granducato di Toscana. “La filosofia, la sola filosofia…, ha disarmato mani che la superstizione aveva così a lungo insanguinato”, scriveva Voltaire.
L’applicazione di una razionalità universale alla sfera politica portò dapprima John Locke e poi il movimento illuminista in generale all’idea che esistessero diritti universali spettanti a ciascun individuo (la vita, la libertà e la proprietà), che lo stato doveva rispettare e garantire a tutti, e fondò la tendenza verso l’abolizione del dispotismo e alla limitazione del potere dello stato, tendenza essenziale della modernità e dell’identità europea.
È l’Illuminismo ad elaborare e a rendere diffusa l’idea di progresso, altra idea costitutiva della modernità e dell’identità europea. Il progresso, però, per gli illuministi non è un destino storico, ma l’esito dell’applicazione in tutti i campi dei lumi della ragione; e non è un fenomeno tecnologico, ma contemporaneamente tecnico, morale e politico, che porterà “I popoli più illuminati, … a poco a poco a considerare la guerra come la più funesta delle calamità, come il più grande dei delitti…..”, come scrive Condorcet, unico degli illuministi francesi abbastanza giovane da aver potuto partecipare alla Rivoluzione Francese.
Quello della pace è uno dei grandi valori prodotti dalla razionalità illuministica.
Scriverà Immanuel Kant, senza alcun dubbio il maggiore illuminista tedesco, e il maggior filosofo teoretico della corrente illuminista: “La ragione, dal suo trono di suprema potenza morale legislatrice, condanna in modo assoluto la guerra come procedimento giuridico ed eleva invece a dovere immediato lo stato di pace…”. Purtroppo non possiamo dire che questo valore della pace, pure centrale nell’illuminismo, sia divenuto parte essenziale della modernità e dell’identità europea. D’altra parte, Kant definisce la Ragione “suprema potenza morale legislatrice”.
Indubbiamente Kant, con la “Critica della Ragion Pratica” e “La fondazione della metafisica dei costumi”, fece il massimo sforzo per costruire una morale fondata esclusivamente sulla ragione e non sull’autorità o sull’arbitrio, portando al massimo sviluppo l’idea illuministica di ragione. E anche qui, se l’aspirazione ad una morale universale fu una caratteristica tipica dell’Illuminismo europeo, che caratterizzò in qualche modo la cultura europea del ‘700, non si può dire che sia stata un aspetto tipico della modernità e dell’identità europea. Anzi, l’Europa rinunciò precocemente alla ricerca razionale dei fini dell’agire umano e all’instaurazione di una morale razionale, e fece uso della guerra senza alcuna apprezzabile limitazione, aggredendo popoli non in grado di difendersi nei periodi in cui la guerra non divampava in Europa.
Quando si discende dal mondo delle idee filosofiche astratte al mondo concreto della storia, bisogna riconoscere che fu la Rivoluzione Francese (dopo i tentativi dei monarchi illuminati, a dire il vero) a provare ad attuare i principi politici dell’Illuminismo, prima di tutto l’idea che ogni persona fosse depositaria di diritti universali inalienabili. Ma la Rivoluzione aprì un periodo di guerre che si protrasse quasi ininterrottamente dal 1791 alla definitiva sconfitta di Napoleone Bonaparte nel 1815.
Il grande valore illuministico della pace non riuscì a concretizzarsi, ed anche la ricerca e la formulazione di una morale razionale non riuscì ad avere molti effetti sulla realtà concreta. Hegel sostenne addirittura che la volontà di affermare principi razionali astratti non può che produrre violenze, come mostrato dalla figura di Robespierre. Non si avvedeva che l’imposizione di principi razionali con la forza comporta una rinuncia alla razionalità stessa, e che la forza non ha nulla a che vedere con la ragione, ma la sua opinione ha un buon numero di seguaci ancora adesso.
Comunque sia, l’Europa del XIX secolo rinunciò, in genere, a ricercare principi razionali e universali come guida dell’azione umana, ma credette che i principi dell’azione umana si potessero dedurre dalla conoscenza oggettiva, dalla conoscenza del corso oggettivo della storia. Si sarebbe tentati di dire che, non potendo più, dopo l’Illuminismo, fondare le idee morali e i fini dell’azione umana (“come si vadia al cielo”) sulla fede nello Spirito Santo, la cultura europea del XIX secolo finisca per fondare le idee morali sulla fede nel progresso.
L’idea di progresso era stata di fatto inventata, o per lo meno diffusa, dall’Illuminismo; ma per gli illuministi si trattava di una conseguenza dell’applicazione della ragione ai diversi aspetti della vita umana. Pertanto si trattava di una possibilità, esito dell’impegno intellettuale, politico e sociale.
Nel XIX secolo, il progresso si trasforma in destino storico, metafisicamente garantito; implicitamente si riprende una antica idea ebraico-cristiana: l’idea che Dio agisca nella storia, dando ad essa un senso (nella duplice accezione di significato e di direzione). Se la storia tende inevitabilmente verso il progresso, per la sua natura intrinseca (nessun grande pensatore del XIX secolo attribuisce il progresso storico apertamente all’azione di Dio, salvo la destra hegeliana, che tende ad identificare l’Assoluto hegeliano con Dio), allora l’azione umana è buona quando segue la tendenza della storia verso il progresso. Non c’è bisogno di regole d’azione universali, razionalmente fondate: bisogna piuttosto comprendere le leggi oggettive della storia, che si crede che possano essere comprese scientificamente, e agire in conformità a quelle leggi.
Hegel, convinto che la ragione non sia astratta, ma si incarni nella storia (“Tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale”, scrive nelle “Lezioni di filosofia del diritto”), ritiene che la storia proceda per gradi verso l’Assoluto. In tal modo, la storia assicura un costante progresso, assicurando ad ogni passaggio una maggiore razionalità, che coincide con una maggior universalità.
Da notare che la forza che fa sì che la ragione proceda nella storia portando lo spirito oggettivo (cioè le istituzioni storico-sociali) ad un’universalità (e a una razionalità) sempre maggiore è la guerra (idea ripresa da Eraclito e notevolmente rielaborata). Di modo che in un colpo solo riabilita la guerra, che diviene uno strumento della ragione, e attribuisce giustificazione razionale alla posizione dei vincitori e all’obbedienza agli imperi.
Marx, come è noto rimise “sui pedi l’uomo che Hegel aveva messo sulla testa”. Ma si trattava pur sempre dello stesso uomo. Di modo che la storia continua ad avere uno svolgimento razionale (non più garantito da un ente metafisico come l’assoluto, ma dalla razionalità dello sviluppo delle forze produttive), e continua ad avere un fine; non più metafisico ma immanente nella storia: la società senza classi. Il bene (la fine della società divisa in classi e del dominio dell’uomo sull’uomo) si realizzerà come esito dello sviluppo delle forze produttive e delle lotte di classe, che sono alla base dello sviluppo storico.
Anche qui lo sviluppo di una morale razionale è impossibile.
Se in Hegel la morale era un momento negativo da superare in quanto astratto, in Marx essa non è che ideologia: giustificazione del suo dominio da parte della classe dominante. Di modo che è inutile impegnarsi nella ricerca razionale dei fini dell’azione umana, aperta al dialogo e al confronto. Le norme del comportamento derivano dall’adesione al corso della storia, che porterà verso il bene come esito del suo sviluppo interno.
Comte, creatore del positivismo, dà alla morale una posizione assolutamente centrale. E, tuttavia, nel “Système de Politique Positive” scrive: “In effetti, non si può realmente sistematizzare la condotta umana, persino quella privata, che in seguito ad una sufficiente determinazione dell’avvenire. Da ciò risulta la subordinazione oggettiva della morale…alla sociologia”. Anche qui, alla fine, la morale non ha nessuna autonomia, ma dipende dalla sociologia, cioè da una scienza positiva, che ci dice come va il mondo (“come vadia il cielo“). Le regole della condotta umana, persino quella privata, dipendono dall’avvenire, o, meglio, dalla nostra capacità di prevederlo. Per Comte, comunque, il progresso, anche per lui un inevitabile destino storico, porterà ad una sempre maggiore connettività, a un progressivo prevalere dell’intelligenza, della socialità e delle caratteristiche propriamente umane sull’animalità. Di qui una morale umanitaria che ha come regola principale vivre pour autrui.
Ma, nell’ultimo terzo del secolo, il positivismo verrà appropriato da Herbert Spencer, che vi introdurrà una particolare (ed arbitraria) interpretazione della teoria dell’evoluzione, nata da poco (l’Origine delle Specie fu pubblicata nel 1859): il darwinismo sociale.
Secondo il darwinismo sociale, ridotto ai minimi termini, le classi dominanti dominano in quanto scelte dall’evoluzione naturale; la storia è destinata a portare il progresso perché in essa operano le leggi dell’evoluzione, che assicurano la selezione dei più adatti, che sono destinati ad occupare i posti dominanti nella società. È sbagliato che lo stato faccia politiche di redistribuzione della ricchezza e di protezione dei più deboli, perché con ciò si alterano i meccanismi di selezione naturale.
Nel corso del XIX secolo, le principali filosofie europee rinunciano alla formulazione di una morale razionale, che in quanto tale si apra al confronto e alla discussione, per privilegiare una concezione finalistica della storia, incentrata sulla fede nel progresso, dalla quale derivare regole di comportamento. Di modo che ogni gruppo sociale, destinato a guidare la storia verso il progresso (lo stato prussiano per Hegel, la classe operaia per Marx, la classe borghese per Spencer) crederà che le sue proprie caratteristiche siano quelle moralmente buone, e rinuncerà a cercare regole condivisibili e aperte al dibattito, preferendo credere di avere il diritto di imporre le proprie.
Sul finire del secolo Friederich Nietzsche, anomala figura di reazionario ateo, farà di questo atteggiamento (porre come moralmente buone le proprie caratteristiche) l’unico fondamento di ogni morale. Scrive infatti, nella “Genealogia della morale”: “…l’uomo nobile…concepisce in anticipo e spontaneamente l’idea fondamentale di ‘buono’, prendendo le mosse, cioè, da sé stesso, e soltanto su questa base si foggia una rappresentazione del ‘cattivo!‘” E, poco oltre: “Il pathos della nobiltà e della distanza, il perdurante sentimento fondamentale e totale di una superiore schiatta egemonica in rapporto a una schiatta inferiore, a un ‘sotto’ – è questa l’origine dell’opposizione tra buono e cattivo.” Ma qui si noterà una netta differenziazione da tutte le posizioni precedenti.
Le posizioni precedenti finivano per giustificare il fatto che una nazione o una classe pretendesse di porre le proprie caratteristiche come buone con un’intima razionalità della storia, con una tendenza della storia verso il progresso. Per l’irrazionalista Nietzsche non esiste alcun progresso. Non c’è alcun bisogno di giustificare il fatto che la “schiatta” dominante imponga i suoi valori: l’unica giustificazione è la forza. Scatenare la propria forza è per Nietzsche la caratteristica centrale di ogni ente di natura: “. Un’entità vivente vuole soprattutto scatenare la sua forza – la vita stessa è volontà di potenza.”[1] Di conseguenza l’imposizione della superiorità gerarchica attraverso la forza è espressione della natura stessa. “L’ordinamento delle caste, la gerarchia, formula soltanto la legge suprema della vita stessa …”
A quanto pare anche in Nietsche la classe (o, meglio, la casta) dominante domina in quanto il suo dominio è espressione della natura stessa. Ma qui, nella natura, è assente qualsiasi forma di razionalità, qualsiasi tendenza al progresso o almeno a qualche forma di evoluzione. Ciò che opera è solo la pura volontà di potenza, lo scatenamento della forza. Di conseguenza: “I deboli e i malriusciti devono perire: questo è il principio del nostro amore per gli uomini. E a tale scopo si deve anche esser loro d’aiuto.”[2] “…occorre…guardarsi da ogni debolezza sentimentale …. la vita è essenzialmente appropriazione, offesa, sopraffazione di tutto quanto è estraneo e più debole, oppressione, durezza, imposizione…”
Dall’ideale della pace e dalla condanna della guerra come delitto, all’esaltazione della forza e della sopraffazione: questo sembra essere il percorso di quello che Hobsbawm ha chiamato il “Secolo lungo”. Comunque sia il “Secolo lungo” si chiude con un massacro di dimensioni senza precedenti nella storia, anche se il massacro della seconda guerra mondiale, che seguì la prima di soli 21 anni, lo fece impallidire.
Quel massacro comporterà l’abbandono definitivo dell’idea di progresso di stampo positivista, per lo meno per quel tanto che in quell’idea c’era ancora di progresso sociale e morale. Resta in campo solo l’idea di progresso tecnologico: la razionalità di ispirazione scientifico-illuministica si restringerà definitivamente al campo della scienza positiva e della tecnologia: al come fornire mezzi e strumenti per raggiungere fini, lasciando definitivamente l’indagine sui fini al di fuori della sua portata. Non a caso il neopositivismo logico viennese dichiarerà allegramente che gli asserti di carattere morale non sono che “espressione lirica”.
Tuttavia il successo (per lo meno apparente) della rivoluzione russa consentirà la conservazione dell’idea, di origine hegeliana, che la storia proceda verso il progresso e verso un sempre maggiore allargamento della razionalità, nella sua forma marxista: il socialismo, esito necessario del superamento delle contraddizioni del capitalismo, che si crede si sia affermato in Russia, è destinato ad espandersi al mondo.
La seconda guerra mondiale rivelerà nel modo più chiaro la profonda irrazionalità di una ragione strumentale che, incapace di occuparsi di fini, metterà sé stessa al servizio dei fini più abietti: lo sterminio di esseri umani, come riveleranno l’organizzazione tecnologica dello sterminio degli ebrei da una parte, e l’invenzione e l’uso della bomba atomica dall’altra. L’Europa si è autodistrutta, e la sua supremazia intellettuale inizia vistosamente a declinare, insieme alla sua supremazia politico-militare.
La supremazia passerà al cosiddetto “Occidente”, cioè al complesso USA-Europa, con l’Europa in una posizione decisamente subordinata, e all’altra potenza vincitrice della guerra: l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.
È vero che per iniziativa “occidentale” (ma prevalentemente americana) verrà approvata la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e verrà fondata l’Organizzazione delle Nazioni Unite, che avrebbe in qualche modo dovuto occuparsi della realizzazione della carta. Sembrerebbe che l’occidente a guida Usa riprenda e rilanci la grande tradizione dei diritti universali inalienabili nata con l’Illuminismo, e il grande valore della pace, anch’esso valore sommo di tanti pensatori illuministi. Si direbbe che dopo la catastrofe che ha travolto l’Europa, il cosiddetto occidente (a guida americana, ma del quale l’Europa è parte integrante) abbia pensato di ancorarsi di nuovo ai grandi valori posti dall’Illuminismo, e di rilanciarli al mondo. E tuttavia si trattò di un rilancio in gran parte illusorio: fin dallo statuto dell’ONU prevalse la logica di potenza (affermata dal diritto di veto assegnato alle potenze vincitrici – o pseudo-vincitrici, come la Francia), che finirà per rendere prevalentemente impotente l’organizzazione nel suo compito di mantenimento della pace.
L’aspettativa di andare inevitabilmente verso un mondo migliore, verso l’abolizione del dominio dell’uomo sull’uomo, e l’idea della necessità della lotta per arrivarci, continuano a sopravvivere nei vari partiti e movimenti di ispirazione marxista, che vedono nell’Unione Sovietica una guida ed un faro per illuminare la via. E tuttavia la scoperta dei crimini di Stalin (innegabili, da quando fu lo stesso segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, Nikita Krusciov, a denunciarli), l’intervento repressivo in Ungheria, e, da ultimo, l’intervento in Cecoslovacchia, minarono, anche nell’area marxista, prima di tutto la fiducia nell’Unione Sovietica, e poi la fiducia nell’inevitabilità del progresso verso il socialismo, e forse anche la fiducia nella sua possibilità.
L’ultima fiamma che, in occidente, riaccese la luce della speranza di costruire un mondo più equo e più libero, superando le relazioni di dominio e sfruttamento tipiche della società capitalistica, fu, pur con alcune ambiguità, il movimento degli studenti del 1968. Ma fu un fuoco di paglia, che si spense velocemente.
E, non a caso, è poco dopo l’esaurimento definitivo delle ultime braci di quel fuoco che, proprio in Europa, compare l’ideologia del post-moderno; forse ancora non a caso, compare ad opera di un esponente di un gruppo marxiano di sinistra extraparlamentare: Jean François Lyotard, già membro del gruppo “Socialisme ou Barbarie”. Sarà però dopo il crollo dell’URSS che l’ideologia postmoderna, assieme alla politica neoliberista, anch’essa affermatasi all’inizio degli anni ’80 in Gran Bretagna e in Usa, dilagherà senza freni per tutto il cosiddetto occidente.
L’ideologia postmoderna si potrebbe riassumere (in modo un po’ volgare) in questi termini. La modernità è ormai finita, e noi viviamo ormai in un’altra epoca, quella post-moderna. La modernità è stata caratterizzata dalla fede nella verità di grandi teorie, a partire dalla fede nella verità delle teorie scientifiche, ma soprattutto nella fede nella verità di grandi visioni della storia, prevalentemente incentrate sulla fede nel progresso. Ma si è scoperto che la verità non esiste. Esistono solo “narrazioni”, più o meno modeste, più o meno grandiose. Rendersi conto di ciò è fondamentale per evitare di provocare di nuovo grandi catastrofi, e chi si ostina a perseguire la verità è di fondo un autoritario che finirà per imporre quel che lui crede essere la verità con la forza.
Per i postmodernisti non esistono fatti, ma solo interpretazioni, come per Nietzsche. Non si avvedono, costoro, del fatto che, se non esistono fatti né verità, ma solo narrazioni, resta solo la forza come criterio di validità di una narrazione. Come il sistema mediatico attuale dimostra chiaramente, chi ha la forza di imporre la sua narrazione vince, e riesce a farla prendere per vera dal grosso pubblico; e chi si ostina a cercare fatti e verità nonostante il potere non voglia farli conoscere, finisce in galera il più a lungo possibile.
Negli ultimi momenti dell’età moderna un giornalista (Seymour Hersh) che aveva reso noto un fatto, documentandolo come veramente avvenuto (la Strage di My Lai in Vietnam), prese il premio Pulitzer; nell’era postmoderna, un giornalista che aveva reso noti una miriade di fatti scomodi e di crimini del potere, documentandoli (Julian Assange), è finito in galera per anni. Si è ostinato a credere che esistano fatti e verità, e ha preteso di farli conoscere come tali. Si direbbe che il poverino non abbia capito che la verità non esiste, ma esistono solo narrazioni, e ha preteso di documentare la sua narrazione coi fatti per dimostrarla vera.
È evidente che, nel mondo postmoderno, una tale presunzione merita una lunga e dura carcerazione.
Nell’epoca postmoderna, infatti, qualsiasi autorità, con la connivenza di qualsiasi operatore o dirigente di qualche mass media, si sente ed è libera di diffondere tutte le menzogne che vuole, dalla strage di Timishoara, alle armi di distruzione di Saddam Hussein, all’incurabilità del Covid19, ed è libera di punire chi ha l’ardire di smascherarle.
Secondo questa ideologia della demenza europea non possono esistere criteri razionali per scegliere tra una narrazione e l’altra. Di conseguenza, prevale solo la narrazione che ha la forza (mediatica o fisica, poco importa) per imporsi. E ai soggetti individuali, per scegliere la narrazione a cui aderire, non resta che lo schema amico/nemico: prendo per buona la narrazione di chi considero amico, e per cattiva la narrazione di chi considero nemico. È una logica di guerra, nella quale l’Europa demente è puntualmente piombata. L’Europa è tornata alle origini: al potere delle cannoniere, dopo aver perso la supremazia intellettuale, ed anche il senno.
In questa Europa demente, parte integrante di un Occidente ormai delirante, si è andati perfino oltre l’ideologia postmoderna, ma in modo in sé coerente. Non esistono che narrazioni, e nessuna narrazione è più vera di un’altra, dato che non esistono fatti, ma solo interpretazioni. Di conseguenza non esiste nemmeno la realtà, alla quale si riferiscono affermazioni sul mondo che hanno la pretesa di poter essere giudicate vere o false, sulla base della loro capacità di rappresentarla o no.
I più ovvi aspetti della realtà comunemente considerata tale, come la differenza insormontabile tra il vivente e l’inanimato, la differenza irriducibile tra i sessi, l’inevitabilità della morte per qualsiasi vivente, vengono negate dalla nuova ideologia transumanista e transgender, secondo la quale l’identità sessuale può essere scelta e mutata a piacimento, la vita può diventare proprietà dell’inanimato, e si può proficuamente ricercare l’immortalità.
In questo clima, in assenza di verità, non esistono nemmeno le menzogne. Dunque si è potuto impunemente raccontare che il Covid19 è passato dal pipistrello all’uomo al mercato di Wuhan, che una grave influenza che colpiva soltanto i vecchi (la Sars-Cov 2) fosse una malattia incurabile, che una terapia genica sperimentale fosse un vaccino, che tale terapia potesse prevenire il contagio, e via dicendo; e in base a queste menzogne si è creduto lecito abolire i diritti fondamentali individuati come naturali e inalienabili in epoca illuministica. Si è arrivati a sospendere per lungo tempo persino la libertà personale, confinando le persone in casa e impedendo la libertà di movimento, e poi obbligando l’intera popolazione all’inoculazione del farmaco sperimentale detto vaccino, inutile e dannoso.
La scienza, modello fondamentale di pensiero della modernità europea, da metodo critico basato sulla smentita o la conferma delle sue affermazioni per mezzo dell’esperienza pubblica ed intersoggettiva viene trasformata in un sistema di dogmi la cui veridicità è di nuovo garantita dal principio di autorità. Ma all’autorità delle Sacre Scritture e dei sacerdoti loro interpreti, basata sull’autorità divina, si sostituisce l’autorità di coloro che vengono riconosciuti come scienziati dal potere politico, dai mass media, e soprattutto dai grandi potentati farmaceutici.
Nonostante il potere soverchiante del complesso formato dall’industria farmaceutica, dall’industria informatica, da governi e istituzioni sovranazionali come l’OMS e l’UE e dall’insieme dei mass media ufficiali, e nonostante il sistema di pesanti restrizioni e ricatti attuato per indurre i recalcitranti all’obbedienza, si è formato un numeroso movimento di resistenza contro obblighi e restrizioni, che non ha creduto nelle menzogne diffuse da quel complesso, e ha disobbedito alle sue pretese.
Questo movimento, autodefinitosi “movimento del dissenso”, non ha nemmeno creduto alla propaganda bellica (ovviamente menzognera) che la Nato, gli stati ad essa appartenenti e quasi tutti i mass media del cosiddetto “occidente” (cioè dei paesi Nato) hanno copiosamente riversato sulle sue popolazioni, e di conseguenza si oppone ad una guerra che come evidente effetto immediato ha la decadenza economica dell’Europa.
Sembrerebbe dunque che la demenza senile d’Europa abbia finito per suscitare un antidoto, un movimento capace di contrastarla, e di ridarle quel minimo di lucidità necessaria perché essa ridiventi capace di assumere un ruolo autonomo all’altezza della sua storia intellettuale, di riprendere in mano il suo destino, e di fare i suoi interessi, diventando agente di pace e di vera democrazia che cerchi di mediare efficacemente tra i due veri contendenti (Stati Uniti d’America e Russia, spalleggiata direttamente o indirettamente da gran parte dei paesi esterni al cosiddetto occidente) e facendo in tal modo anche gli interessi dell’umanità.
Ma questo ottimismo può avere qualche giustificazione? È a tutti evidente che per ora il movimento è troppo debole per svolgere appieno il ruolo di antidoto: si tratta di un movimento marginale, che non ha la forza necessaria per svolgere quel ruolo: è privo di rappresentanza politica, e, pur riuscendo a sopravvivere e a comunicare al suo interno e con l’esterno attraverso media alternativi che corrono sul World Wide Web, non ha quasi alcun accesso ai grandi mezzi di comunicazione di massa.
Che il movimento sia debole, e non abbia la massa critica che lo metta in grado di ostacolare efficacemente le élites del potere e di imprimere una deviazione alla direzione catastrofica che la storia sta prendendo è una constatazione banale.
La questione più importante è un’altra: ne ha le potenzialità?
Pur augurandocelo, è lecito coltivare qualche dubbio. Sicuramente, all’interno del movimento, esiste un’élite che possiede le capacità intellettuali necessarie per contrastare la demenza europea, anche se non sembra possedere le capacità politiche adeguate. L’esempio migliore di questa élite è la commissione Dubbio e Precauzione. Ma si tratta di un’esigua minoranza poco rilevante.
Il grosso del movimento continuerebbe ad esistere anche senza questa piccola minoranza. E si tratta di un coacervo eterogeneo privo di progettualità. Si è formato per mezzo di ciò che lo psicologo sociale Enzo Spaltro chiamava “lotta contro”. Lotta contro le restrizioni imposte dalle politiche pandemiche, contro il “green pass”, contro gli pseudo-vaccini anti Covid, contro gli effetti avversi provocati dai vaccini; e poi contro la guerra.
Tuttavia, tutto ciò che è girato attorno al Covid (dalle ricerche di “gain of function” alle terapie geniche, dal “green pass” allo spostamento verso la rete della maggioranza delle relazioni sociali, con relativo potenziamento della sorveglianza, fino all’estremo potenziamento dell’arricchimento smodato dei più ricchi, con correlativo restringimento in poche mani del controllo del capitale) così come il ritorno della guerra “come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” (come recita l’art. 11 cost.) sono parti di una modalità organica con la quale le élites del potere occidentali credono di affrontare e superare le sfide che la storia e l’ambiente naturale pongono alla civiltà occidentale stessa e al loro potere. E questa modalità può essere sconfitta solo dalla “lotta per”. Dalla lotta per l’attuazione di un progetto politico, per un progetto di società: di società equa, pacifica, cooperativa e non competitiva, in equilibrio con la natura di cui fa parte. E questo progetto non solo manca al movimento, ma probabilmente non è elaborabile al suo interno. All’interno del movimento convivono tendenze mutualmente incompatibili, che gli impediscono di assumere una direzione unitaria verso un’alternativa all’esistente.
In particolare, per opporsi alla direzione presa ai poteri dominanti e dalla storia, è necessario curare la demenza europea, il che significa costituire un nucleo non demente, ma lucido. Bisogna ritornare a quello che fu il nucleo centrale di quella che fu la supremazia intellettuale europea: spirito critico, razionalità scientifica, opposizione al principio di autorità, dialogo (che è alla base sia del metodo scientifico che della democrazia). Ma a una razionalità scientifica che non sia cieca, e non sia al servizio di qualsiasi fine, prima di tutto la potenza e il dominio; una razionalità scientifica al servizio di una razionalità morale.
Bisogna ritornare ad una razionalità dei fini, incamerando nelle radici del pensiero europeo il metodo e la prospettiva etico-politica che furono elaborati fuori d’Europa e fuori dal cosiddetto occidente, proprio per liberarsi del giogo della potenza europea: la nonviolenza, che fu elaborata in ambito indoafricano (dagli immigrati indiani in Sud Africa) e attuata prevalentemente da indiani, e successivamente da afro-americani (negli USA) e africani (in Sud Africa).
Non mi sembra che il grosso del corpo del “movimento del dissenso” sia disponibile a questa strada.
È vero che esso si astiene e si è sempre astenuto dall’uso attivo della violenza; ma ciò è diverso dalla nonviolenza attiva, da ciò che Gandhi chiamava la nonviolenza del forte. Questa nonviolenza non solo è metodo attivo di lotta contro l’oppressione, ma anche impegno alla diminuzione della violenza strutturale, al deperimento della concentrazione del potere, impegno nella ricerca e nell’affermazione della verità (Satyagraha, il termine con cui Gandhi indicava il suo metodo, significa infatti “via della verità”). Proprio l’opposto della demenza europea. Ma è ben difficile tenersi fuori dalle tendenze storiche di un’intera civiltà.
Segni della demenza europea sono evidenti all’interno del movimento. Se tale demenza ha portato a spacciare per scienza il principio di autorità, che della scienza è l’antitesi, troppo spesso gruppi del movimento finiscono per accettare questa identificazione, finendo per rifiutare di conseguenza la scienza ed il suo metodo in generale, o, per lo meno, ad ignorarli.
Nel corpo del movimento serpeggia un’ostilità e un’insofferenza per le problematiche ambientali, che non sembra essere basata sullo spirito critico e sul metodo scientifico, ma sullo schema amico/nemico, e perfino su un principio di autorità rovesciato. Gli esponenti delle élites, che abbiamo identificato come nostri nemici, parlano di ambiente e di cambiamenti climatici: di conseguenza il problema dell’adattamento delle attività umane agli equilibri ecosistemici dell’ambiente in cui le attività umane si svolgono è solo un modo per affermare il potere delle élites, e non ha un’importanza centrale. Invece di credere a ciò che è sostenuto dall’autorità, bisogna credere alla sua negazione.
Ho persino letto in uno scritto, in uno dei numerosissimi canali del movimento, che “I limiti dello sviluppo” contiene solo falsità perché Aurelio Peccei (fondatore del Club di Roma, che quella ricerca aveva commissionato) era amico dei Rockefeller. Sorvolo sulla credibilità dell’amicizia tra Peccei e i Rockefeller; mi limito a far notare che tale affermazione equivale più o meno a dire che siccome Guglielmo Marconi era in buoni rapporti con Mussolini, allora la radio non esiste. L’autore di quello scritto non solo non si prendeva la briga di smentire sul piano scientifico le tesi del libro, ma attribuiva al libro stesso affermazioni che nel libro non si trovano affatto, dimostrando di parlare per sentito dire, senza averlo nemmeno letto. Ancor peggio per quanto riguarda il cambiamento climatico, che viene definito “truffa” a destra e a manca.
Anche qui. Può ben darsi che il riscaldamento globale non sia dovuto all’aumento della Co2, ma questa tesi va sostenuta con argomentazioni scientifiche, smentendo con tali argomentazioni la teoria secondo la quale la Co2 avrebbe un grosso ruolo nella regolazione della temperatura terrestre, teoria ben corroborata fin dal XIX secolo, e ritenuta autorevole da più di un secolo. Invece pare che si ripeta che si tratta di una truffa perché lo dicono gli amici.
Ho letto recentissimamente su una delle tante chat del movimento del dissenso che “bisogna aprire un po’ gli occhi” ai ragazzi di Fridays for future. “Aprirgli gli occhi” perché capiscano che il problema del riscaldamento globale è una truffa. A quanto pare non si tratta di persone che ritengono vera una posizione che si basa su una certa interpretazione scientifica dei dati, e con le quali bisogna discutere dei dati e delle loro interpretazioni per avvicinarsi alla verità, ma si tratta di poveri sprovveduti con gli occhi chiusi. Che qui si riprenda completamente e assolutamente l’atteggiamento dominante è evidente: i ragazzi di Fridays for future vengono trattati come poveri sprovveduti, come da sprovveduti venivano trattati i “no vax”, terrapiattisti, ignoranti, e negatori della scienza, coi quali non valeva la pena di discutere, ma che andavano eliminati.
E ancora. Come la demenza europea, alla stessa stregua tutte le demenze, ha al proprio centro la perdita (vera o voluta non importa) di memoria, così anche il movimento del dissenso manifesta spesso una grave smemoratezza.
Per la demenza europea non esiste una storia della Russia e dell’Ucraina e dei loro rapporti precedente al 24 febbraio 2022 e non esiste una storia dei rapporti tra Israele e la Palestina precedente al 7 ottobre 2023. Per il movimento del dissenso sembra non esistere la storia precedente alla dichiarazione della pandemia nel febbraio 2020, di modo che si può impunemente attribuire a un passato lontano (nel 1991 si tenne la conferenza ONU di Rio, che affermò l’esistenza e la gravità del problema del riscaldamento globale, basandosi su ricerche risalenti ad un secolo prima) lo stesso schema esplicativo della “pandemia” del 2020: come le politiche pandemiche si basarono su un sistema organico di menzogne per imporre il “Great Reset” progettato dalle élites del Wef, così le politiche per limitare il riscaldamento globale si basano su menzogne. Qualcuno è arrivato perfino ad estendere lo schema esplicativo della pandemia al Risorgimento Italiano.
E di nuovo. Nel movimento del dissenso serpeggia una mal celata ostilità verso gli immigrati, che si manifesta nell’opposizione allo “ius soli” e al referendum promosso da Oxfam per diminuire i tempi di residenza che danno diritto alla richiesta della cittadinanza.
Ora, nessuno vuole sostenere che le migrazioni siano una cosa bella e positiva. I primi a ben sapere che la migrazione è un dramma sono i migranti, che abbandonano le loro terre, le loro tradizioni, le loro lingue, quasi sempre i loro cari e le loro famiglie, che perdono persone care, talvolta irrimediabilmente. Ben lo sanno figli e famiglie degli innumerevoli morti annegati nel Mediterraneo. E certo i migranti non vanno incontro a tutto questo per gioco, o per curiosità, ma per costrizione: per difficoltà economiche che rendono impossibile la vita a loro e alle loro famiglie, per guerra, o più semplicemente per assoluta mancanza di prospettive di vita e di futuro.
Le migrazioni sono un risultato del sistema di violenza strutturale organizzato dall’Europa e poi dal cosiddetto occidente da circa cinque secoli ai danni di tutte le civiltà e culture extraeuropee. Sono attualmente il frutto del sistema economico-finanziario a guida occidentale. È contro l’aggressività di questo sistema, contro la causa delle migrazioni, che va condotta la lotta, che non può essere condotta solo contro questo sistema, ma contemporaneamente per un sistema economico più equo e meno distruttivo.
Invece che fa il movimento del dissenso? Se la prende con chi migra, proponendo di essere più severi nella sorveglianza delle frontiere e sempre avari nella concessione della cittadinanza. Taluni arrivano ad utilizzare il concetto marxiano di esercito industriale di riserva, non per fondare la solidarietà tra tutti gli sfruttati (come faceva Marx), ma per fondare politiche di chiusura contro chi migra, come quelle salviniane.
In sintesi, non avendo la forza (forse nemmeno le capacità) per contrastare la violenza strutturale che provoca le migrazioni, si propone l’uso della forza per bloccare e tenere fuori dai confini i migranti, e, come non bastasse, si propone di tenere chi è già arrivato (legalmente) ed i suoi figli fuori dai diritti di cittadinanza il più a lungo possibile. Invece di combattere la violenza strutturale, la si conferma.
Anche qui il movimento sembra avere assorbito al suo interno un elemento tipico della demenza europea (e occidentale in genere): l’aggressività verso chi non fa parte della cultura euro-occidentale.
Il quadro che ho delineato non è confortante.
Voglio sperare che le tendenze che ho individuato siano solo di una parte significativa del movimento, ma che sia possibile fare emergere altre tendenze in esso presenti, più congruenti con una vera alternativa nonviolenta alle tendenze dominanti, ma che hanno poca voce per esprimersi, che siano veramente in grado di essere un’alternativa credibile alla demenza europea.
Voglio auspicare che sia possibile far rinascere un vero pensiero critico capace di usare il metodo scientifico al servizio di fini razionali.
Ma non escludo che si tratti di una speranza vana: forse, nel periodo di crollo di una civiltà, la decadenza culturale e intellettuale permea di sé tutti coloro che appartengono a quella civiltà; forse è solo dai popoli africani ed asiatici che ci possiamo aspettare che emerga un’alternativa adeguata.
di Aligi Taschera
NOTE
[1]Al di là del Bene e del male, §13
[2]“L’anticristo”, § 2.